I classici della domenica: Il conte di Montecristo

E’ domenica. Il giorno del riposo. Riposo. A questa parola ognuno di noi associa un significato particolare. Io, per esempio, nel mio ideale di domenica oziosa, mi raffiguro bardata in un plaid caldo e lanoso (visto il periodo, sai com’è) intenta nella lettura di un bel libro. Un classico, per la precisione.
Così, ho pensato che fosse il momento giusto per propinarvi una mia analisi/recensione su un grande classico, Il conte di Montecristo (1844-45) di Alexandre Dumas (padre).
Bene, bando alle ciance allora, e buona lettura.

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Prima di iniziare, una piccola puntualizzazione: ci tengo a precisare che l’edizione della BUR e della Mondadori, tradotte da Emilio Franceschini, peccano di pesanti censure che consistono nel manipolare e riassumere interi paragrafi in poche frasi. Tenetene conto e siate più cauti di me nell’acquisto perché queste sono cose veramente vergognose.

Detto questo, Il conte di Montecristo è un capolavoro assoluto della letteratura francese di cui consiglio caldamente la lettura.

Il tema

La vendetta è il perno portante di questo romanzo. Non la classica vendetta, banale e subitanea, ma una vendetta lenta e paziente, intelligente, sapientemente architettata e micidiale. Una vendetta che si ramifica e si intreccia per varie vie, atta a colpire i vari colpevoli, le cui colpe sono tutte concatenate attorno l’ingiustizia subita da Dantès.
Ciò che rende memorabili tutte queste vendette non risiede solo nella loro componente strutturale, seppure indubbiamente magistrale, ma è la valenza simbolica che ne deriva: Caderousse “pugnala alle spalle” Edmond, tacendo la verità; Caderousse morirà pugnalato in quanto il conte tacerà sul pericolo che attende lo sciagurato. Fernand toglie l’amore a Edmond, e così la sua ragion di vita, facendogli desiderare la morte; Morcerf morirà suicida. Villefort toglie la libertà a Edmond, facendogli desiderare la follia; Villefort diventerà pazzo. Infine Danglars, – l’artefice del piano che ha tolto Edmond dalle braccia dell’amatissimo padre che muore, così, solo e di fame, – sarebbe dovuto a sua volta morire di fame, e nel modo più odioso per l’avido banchiere: perdendo tutta la sua fortuna, tutti i suoi amati soldi per un misero tozzo di pane.

Il tempo

Il tempo del romanzo è suddiviso in quattro parti.

All’inizio della storia, troviamo un giovane Dantès pieno di entusiasmo. La vita gli sorride: ha un’ottima carriera, lo aspetta l’imminente matrimonio con la donna che ama alla follia ed è sostenuto da un padre affettuoso. Dantès non progetta grandi cose perché lui ha già tutto, hic et nunc. L’ingenuo Edmond è il presente.

Poi, l’incarcerazione. Durante il periodo di prigionia Dantès perde il concetto di tempo. Non sa che giorno sia, non sa in quale anno si trovi. Trascorre le giornate nel vuoto dei suoi pensieri, passa i mesi alternando vari stati d’animo e diverse fasi emozionali. Dapprima, incredulo per ciò che gli è accaduto, coltiva la disperata illusione di poter essere liberato; poi, man mano che passa il tempo, subentra la rabbia e l’odio per gli uomini che hanno distrutto la sua vita. Infine, dalla follia della sua solitudine affiora la rassegnazione, e l’idea del suicidio lo accarezza sempre di più.
Il tempo è confuso, è statico. Il tempo non esiste.

Con la nascita del conte di Montecristo ci troviamo nel cuore del romanzo dove regna il terzo stallo temporale, il passato; le azioni dei vari personaggi si svolgono, sì, al presente, ma in realtà sono tutte conseguenze correlate al passato. Il conte premedita e prevede tutto, manovra i suoi aguzzini come burattini, tutto in virtù della sua vendetta. Una vendetta furiosa e indomabile che è rivolta solo al passato. Il presente di Montecristo è fittizio in quanto lui non esiste se non nelle veci del passato.

Infine, l’ultimo tempo, il futuro. Siamo all’epilogo: il conte ha concluso la sua opera, e adesso lui, Haydée, Maximilien e Valentine, possono finalmente guardare al futuro, presumibilmente roseo, che si prospetta dinanzi a loro.

Il conte, la catalana, il “figlio”

Il conte di Montecristo è un personaggio importante, in ogni senso del termine. Enormemente ricco, il conte rispecchia lo stereotipo secondo cui qualsiasi cosa ha il suo prezzo, e possiede tutto ciò che di più lussuoso, ricercato e stravagante si possa avere, dimostrando sempre un estremo gusto e raffinatezza, al contrario di Danglars che, nonostante i soldi, si circonda di pacchianerie, cadendo di conseguenza nella grossolanità e nel ridicolo.
Perfetto gentleman, pacato e cortese nei modi, è però un uomo tormentato; accecato dal suo desiderio di vendetta, cova un profondo astio e disprezzo per il genere umano, che ritiene meschino e incapace di bontà, fatta eccezione per quei pochi che ancora conservano un animo nobile e sincero (la famiglia Morrel per esempio).
Montecristo è estremamente affascinante, ma al contempo è un personaggio tenebroso; l’alone di mistero che lo circonda fa sì che egli venga paragonato a Lord Byron, se non addirittura a un vampiro (merito anche della sua carnagione eccessivamente pallida).

Il conte di Montecristo è l’incarnazione del potere: egli può tutto, persino ridonare la vita ai “morti”.
Giudice e boia, il conte è una figura contorta, megalomane, con un proprio senso della giustizia; difatti, sebbene si professi sempre solo un esecutore del volere divino, in realtà si compiace (forse anche solo inconsciamente) nel giocare a fare Dio, manifestando, così, un latente delirio di onnipotenza, come del resto si può intravedere in tutte le sue mistificazioni durante l’arco del romanzo.

Il dualismo che pervade il protagonista è evidente: se da un lato è duramente spietato con i suoi nemici, dall’altro è molto prodigo di cure verso gli amici.
Significativa, poi, la differenza tra il giovane Edmond Dantès e il maturato conte di Montecristo (non posso non pensare al tema del doppio che emerge): il primo così ingenuo e puro di cuore, dedito all’amore e alle gioie della vita semplice e onesta; il secondo così vendicativo, giustiziere e simulatore, ormai ricco ma distaccato di fronte ai piaceri di una vita nel lusso. Sembrano, e alla fin fine sono, due personalità completamente diverse, eppure si tratta pur sempre della stessa persona.

Montecristo è il superuomo per eccellenza.

Ho davvero ammirato molto il conte, per il suo fascino, la sua intelligenza e la sua brama di vendetta, ma l’ho trovato anche deplorevole, principalmente per due ragioni: Mercédès e Maximilien.

Ufficialmente, Mercédès viene punita in quanto moglie di Morcerf, e quindi è inevitabilmente colpita dalla disgrazia del marito, ma in realtà Mercédès è punita proprio perché ha sposato Morcerf. Per Montecristo il grigio non esiste, tutto è bianco o nero. O sposi me o muori. Perciò la colpa di Mercédès, secondo il conte, consiste nel non aver aspettato Edmond, nel non essersi uccisa (così come professava ai tempi del loro amore se fossero mai stati separati), e di aver sposato Fernand per sua libera scelta. Ma una donna che sposa un uomo che non ama, perché donna e perché povera, e quindi perché debole di fronte a una società dell’epoca, non è una donna colpevole. Mercédès è una donna che ha sofferto e continua a soffrire in quanto non ha mai dimenticato il suo vero amore; è una donna assalita dal rimpianto e dal rimorso, non è una donna felice, non è una donna da punire, ma una donna da compiangere.
L’ultimo dialogo tra la catalana e il conte è qualcosa di straziante. Si percepisce tutto il peso dell’irrimediabilità del passato, un peso che dilania dentro e rende soli, con i propri demoni, un peso che fa invecchiare e che condanna a piangere se stessi per il resto della propria vita.
Ecco, vedere quei due, che una volta si erano amati così ardentemente, e che dopo più di 10 anni si ritrovano e di quell’amore non è rimasto più che un ricordo, ecco, mi ha lasciato una profonda tristezza dentro.

Infine Morrel. Non mi ritrovo completamente d’accordo riguardo all’idea che ha il conte sulla felicità: solo chi ha sofferto merita di essere felice. Questo il concetto riassunto in poche parole. Tralasciando il fatto che personalmente ritengo la felicità non necessariamente correlata alla sofferenza, in quanto essa è di chiunque riesca e sappia goderla, trovo meschino il fatto che questa “necessaria” sofferenza sia lo stesso conte ad imporla a Maximilien, che tra l’altro considera e tratta come un figlio. Fare un grande male (continuare a far credere a Morrel che Valentine sia morta, fino a spingere il giovane sull’orlo del suicidio) per fare un grande bene (realizzare finalmente l’amore tra Maximilien e Valentine) ha, per lo meno ai miei occhi, un che di sconcertante e superbo; il richiamo alle vicissitudini di Giobbe risalta inevitabilmente ai miei occhi, così come, di nuovo, il complesso di Dio del conte.

Conclusioni

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Ci sarebbero tante altre cose da dire, ma ho paura di diventare troppo pesante, perciò concludo dicendo che la grandezza di questo romanzo non consiste solo in una trama avvincente e ingegnosa, capace di stimolare la curiosità del lettore (condizione indispensabile se si pensa che Il conte di Montecristo nasce come feuilleton), ma anche, e soprattutto, nella maestria di Dumas nel delineare i personaggi, ciò che si cela nell’animo umano, e nella fattispecie il sentimento della vendetta.

Voto: ★★★★★

6 risposte a "I classici della domenica: Il conte di Montecristo"

  1. Curioso il paragone con un vampiro – esiste una versione animata (Gankutsuou) dallo stile incredibile e lussureggiante che gioca proprio su questa idea. È inoltre meno dura nel finale nei confronti di Mercedes (è abbastanza ovvio che non sarà mai felice ma più per i compromessi che ha fatto e la sua coscienza che perché debba essere punita) e molto più dura nei confronti del Conte.
    Curiosamente, la storia prende una piega diabolica e soprannaturale che sembra venirsene fuori dal dialogo fra Montecristo e Villefort (qualcosa al riguardo del diavolo) portato agli estremi e preso completamente alla lettera.

    Per quanto riguarda Maximilien io ai tempi mi sono domandata se non volesse in qualche maniera invece insegnargli una lezione: Maximilien è pronto a rinunciare alla vita per la disperazione, mentre il Conte (che ha qualche ripensamento quando il figlio di Villefort muore, per esempio) si è abbandonato alla furia della vendetta e probabilmente si è reso conto di quanto sia stato per certi versi persino deleterio a sé stesso il suo comportamento. Mentre leggevo mi domandavo se non volesse, per vie traverse, insegnargli che non vale mai la pena di diventare preda della disperazione; in una maniera o nell’altra.

    La riflessione sullo scorrere del tempo è davvero interessante e non ci avevo pensato minimamente. Come pure i paralleli fra i peccati delle persone di cui il Conte si vendica e la loro punizione finale. Ho letto che Dumas era considerato come un autore che non scriveva cose che restano con i lettori e li fanno riflettere ma, accidenti, dopo aver letto quest’analisi a me viene voglia di rileggerlo (anche se ora come ora sono nel bel mezzo di Frankenstein)!

    Comunque, tornando a Mercedes: potrei sbagliarmi, ma a me sembra che il trattamento a lei riservato sia il prodotto dei tempi in cui il romanzo è stato scritto. Ora come ora sicuramente a noi sembra normale che una donna possa essere sposata e con un figlio e possa ritrovare l’amore fra le braccia di un altro uomo, ma magari ai tempi era una cosa inconcepibile? Non sto cercando di scusare Dumas, ma è la parte del libro che mi è sembrata meno convincente e, considerato il livello del resto della caratterizzazione dei personaggi e dell’intreccio della storia non riesco a darmi una ragione per una caduta del genere (a mio parere) se non per via di limitazioni culturali o magari anche per via del pubblico a cui era indirizzato il racconto.

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    1. Ciao! Innanzitutto ti ringrazio tantissimo per il tuo commento; l’idea che la mia analisi ti abbia fatto venir voglia di rileggere il libro mi riempie di gioia e un pò di sano orgoglio 🙂

      Per quanto riguarda Maximilien, ti ringrazio davvero per il tuo punto di vista perchè io non avevo minimamente pensato al fatto che potesse trattarsi di una lezione sulla sacralità e la forza della vita su tutto, anche sulla disperazione, forse perchè troppo crudele come “metodo insegnamento”, o forse perchè, ormai concentrata su una visione del conte prevalentemente vendicativa, non ho pensato a lui in altre vesti al di fuori del suo ruolo principale.
      Resto comunque titubante nell’accreditare la tua teoria, non perchè non sia valida, ma perchè stando al personaggio del conte tutto ruota attorno alla sofferenza; è più Maximilien, secondo me, che indirettamente insegna al conte che, nonostante tutto, esiste sempre anche la gioia, ma solo se saputa afferrare. E difatti Montecristo decide di tornare a vivere, nel vero senso della parola, assieme ad Haydée, per concedersi quella felicità che finalmente anche lui comincia a credere di meritarsi.

      Infine Mercédès; la sua situazione è sicuramente legata al frutto dei tempi di Dumas, ma io credo che in questo caso prevalga la natura romantica (nel senso della corrente letteraria e culturale dell’epoca) dell’autore. Nel Romanticismo prevalgono le forti emozioni, come quindi l’amore vero, idealistico e idealizzato, e i grandi tormenti. L’amore senza la tragedia non può esistere (sempre nell’ambito della tradizione Romantica). E’ proprio la tragedia dell’impossibilità di un grande amore ormai perduto come quello tra Edmond e Mercédès che invece dà potenza al romanzo, almeno per quanto riguarda la componente Romantica, più che l’amore tra Maximilien e Valentine, che invece mi sembra quasi una parodia del Romanticismo, una sua esasperazione. O forse, meglio ancora, Maximilien e Valentine rappresentano il lato acerbo e ancora troppo giovane del Romanticismo. Il rapporto tra il conte e Mercédès è invece potenza di sentimenti ed emozioni allo stato puro, quindi lo trovo un pò strano che tu invece ritieni sia un punto debole. Ma è il bello dei punti di vista, no? 🙂

      Ti ringrazio ancora per la tua visita e il tuo commento, passa a trovarmi quando vuoi e sentiti libera di dire la tua!
      Ps. Buona lettura con Frankenstein!

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      1. Frankenstein l’ho finito, mi ha un po’ dilaniata! Io ho passato l’intero romanzo a sentirmi triste per la creatura (mi rifiuto di chiamarlo mostro, ecco!).

        Il mio sospetto sul Conte è anche un po’ dovuto alla sua esperienza: Farina gliel’aveva detto di usare il patrimonio per trovare la felicità, ma lui non l’ha ascolato/capito appieno. Da lì mi sono domandata: magari sa che la lezione non la impari se non ci sbatti il muso? Per contro, trovo ancora più interessante l’idea che Maximilien possa a sua volta influire sul Conte e contribuire alla sua felicità. Più ne discuti, più trovi spunti interessanti!

        Credo che per quanto riguarda Mercédès, influisca molto la mia esperienza personale: avendo trovato l’amore della mia vita (che è poi colui il quale mi ha introdotto al Conte di Montecristo – dopo averlo sentito descrivere con tanto ardore perché gli piace così tanto sfiderei chiunque a non volerlo leggere; anche se io ovviamente sono di parte) faccio fatica a distaccare la comprensione dell’opera letteraria da quello che avrei voluto per i personaggi. Un po’ come quando da bambina riscrivevo i finali quando erano tristi!

        Però devo dire che dopo aver letto il tuo ulteriore commento ho trovato una nuova chiave di lettura. Sicuramente seguirò il sito, non mi è spesso capitato di trovare siti in Italiano dove trovare punti di vista così interessanti e al tempo stesso privi di qualsiasi alterigia. Se tutti parlassero di libri così sono convinta che la gente in Italia leggerebbe molto di più. Cercherò una versione integrale del Conte, mi sa che io ho letto la stessa con i tagli. :/

        E sono d’accordissimo! I pareri diversi degli altri sono ultra-interessanti. Più ne raccolgo, più trovo interessanti punti di vista!

        Emmò mi butto su Dracula!

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      2. Vabbè, adesso mi fai arrossire! 😀
        Sappi che se trovo nuovi spunti è perchè fortunatamente ci sono persone come te a cui piace interagire e scambiarsi pareri; solo così escono fuori idee interessanti! Tra l’altro, più ci rifletto e più penso che potrebbe essere molto sensata la tua teoria, è che trovo comunque troppo cattivo il conte a torturare così Maximilien!

        Per quanto riguarda la traduzione, da qualche mese Einaudi e Bur (ma probabilmente anche altre case editrici, devo controllare) hanno ripubblicato Il conte di Montecristo con una nuova traduzione che, a quanto ho sentito, dovrebbe essere integra (speriamo!).

        Detto questo, complimenti sia per le tue letture (con le quali non vedo l’ora di cimentarmi anch’io!), sia per la tua anima gemella! Sei fortunata ad avere accanto qualcuno che condivida le tue passioni e ti possa consigliare.
        Purtroppo io sono circondata da persone che non leggono (sarà per questo che ho cercato conforto nel mondo virtuale? Ma questa è un’altra storia).

        Ti ringrazio ancora e di nuovo buona lettura!
        A presto 🙂

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