I classici della domenica: Oblòmov

«A quanto pare sei troppo pigro anche per vivere?»

Nel 1849 appare su un supplemento letterario russo Il sogno di Oblòmov, nucleo dal quale trarrà origine il romanzo più famoso di Ivàn Aleksàndrovič Gončaròv: Oblòmov.
Ben dieci anni sono serviti all’autore per la stesura di uno dei grandi classici della letteratura russa, e ciò che ne è uscito è un romanzo raffinato, sagace, dai forti risvolti filosofici e sociali.

La struttura del romanzo è suddivisa in quattro parti, ognuna corrispondente ad un determinata sequenza narrativa; così troviamo una lunga situazione iniziale, in cui ci viene presentato Oblòmov, la sua vita, i suoi pensieri, la sua infanzia; la rottura dell’equilibrio sonnolento di Oblòmov con l’arrivo dell’amico Stolz e l’inizio della relazione amorosa con Ol’ga; l’evoluzione della vicenda, il tentennamento nella storia d’amore con Ol’ga; infine lo scioglimento finale, la resa di Oblòmov, la sconfitta.

Oblòmov

Star disteso per Il’jà Il’ič non era né una necessità, come per un malato o per uno che ha sonno, né un caso, come per chi è stanco, né un piacere, come per il pigro: era la sua condizione naturale.

O ancora meglio: star disteso per Il’jà Il’ič era tutte queste cose insieme, aggiungo io.
Appartenente dell’aristocrazia russa, discendente diretto dell’antica famiglia degli Oblòmov, e proprietario terriero della tenuta e dei possedimenti legati al suo nome, il nobile e annoiato trentenne Il’jà Il’ič Oblòmov, trascorre pigramente le sue giornate nell’ozio e nella nullafacenza totale.
A distrarlo dalla sua noia sono i numerosi conoscenti che passano a trovare Oblòmov, riferendogli tutte quelle novità che gli rimarrebbero altrimenti estranee: perché Il’jà Il’ič non esce mai dal suo appartamento. Perennemente avvolto nella sua amata vestaglia, disteso sul letto o sdraiato sul divano, Oblòmov si crogiola nella sua pigrizia, ritirato dalla vita e dal mondo; per la maggior parte del tempo dorme, o fantastica. Nulla sembra risvegliare in lui un interesse tale da poterlo smuovere, da poterlo scrollare dalla sua incapacità attiva a vivere.

Con l’età gli era tornata una certa timidezza infantile, si aspettava pericoli e mali da tutto ciò che non si trovava nell’ambito della sua vita quotidiana: conseguenza della scarsa abitudine ai vari fenomeni esterni.
[…] Non era abituato al movimento, alla vita, alla folla e all’agitazione.

Disabituato all’azione, qualsiasi avvenimento estrinseco alla sua quieta monotonia è fonte di una tormentosa angoscia, che resta tuttavia un’angoscia vana, priva di ingegno e reattività; così, quando riceve dallo stàrosta incaricato di amministrare i suoi beni una lettera con un resoconto poco roseo, Oblòmov si dispera, ma non ci pensa minimamente a partire ( Come, partire? Così su due piedi? ) per andare a verificare di persona le parole dell’amministratore, non poi così affidabile, ma si limita a lamentarsi, a chiedere consiglio ad altri.
Allo stesso modo, quando il servitore Zachàr gli ricorda che di lì a una settimana dovranno traslocare per via dello sfratto, Oblòmov non si anima nella ricerca di un altro appartamento, ma anzi si indispettisce col servo perché gli ricorda qualcosa di sgradevole; come uno struzzo nasconde la testa sotto la sabbia, e quando finalmente si decide a scrivere una lettera al padrone di casa, nella speranza di convincerlo a farlo restare, ecco che allora manca la carta per scrivere, l’inchiostro nel calamaio si è seccato, i ‘che’ e gli ‘in cui’ si ripetono, si scontrano disarmonicamente, è ora di pranzo, è meglio rimandare, c’è ancora tempo, scriverà domani.
L’arte della procrastinazione, signori miei.

«Forse che io mi arrabatto, forse che lavoro? […] Io non mi sono mai infilato le calze da quando sono nato, grazie a Dio!»

Il lavoro è impensabile per Oblòmov; mantenuto dalla rendita della proprietà, Oblòmov non solo disdegna l’attività lavorativa, ritenendosi in qualche modo superiore a chi si “arrabatta”, ma non ne comprende neanche la necessità, non coglie l’utilità di un’attività ai suoi occhi futile e dispendiosa di energie.
Sebbene in gioventù abbia lavorato per un breve periodo _ più per pro forma che per necessità _, Oblòmov non ha mai compreso la responsabilità del lavoro, considerandolo per lo più un’infelice forma d’intrattenimento, un passatempo.

La vita ai suoi occhi si divideva in due metà: una era fatta di lavoro e noia, che per lui erano sinonimi; l’altra di riposo e serena allegria. […]
Credeva […] che il recarsi in ufficio non fosse affatto un’abitudine obbligatoria, a cui attenersi ogni giorno, e che il fango, il caldo o semplicemente il non averne voglia fossero sempre pretesti sufficienti e legittimi per non andare a lavorare.
E come fu amareggiato quando vide che doveva esserci almeno un terremoto, perché un impiegato sano non andasse a lavorare, e i terremoti, neanche a farlo apposta, a Pietroburgo non capitano mai; […] per giunta pretendevano tutto subito, tutti si affrettavano chissà dove, non si fermavano mai; non facevano in tempo a consegnare una pratica, che già ne afferravano freneticamente un’altra, come se fosse la cosa più importante del mondo, ma una volta terminata quella la dimenticavano e si gettavano su una terza…e così via all’infinito!

Niente, quindi, sembra essere capace di smuovere Oblòmov, eccetto il suo amico Stolz; cresciuti insieme e legati da anni di profonda e sincera amicizia, Stolz è il contrario di Olòmov, è la parte attiva del duo, un uomo dominato da quell’energia vitale che manca completamente all’amico.
Eros e Thanatos.
Così, quando Stolz torna da uno dei suoi numerosi viaggi e trova l’amico nel solito stato di apatia e decadenza, prende in mano la situazione, lanciando ad Oblòmov un ultimatum: ora o mai più.

Oblomovismo

Che cosa doveva fare adesso? Andare avanti o restare? […]
Andare avanti significava togliersi di colpo l’ampia vestaglia non solo dalle spalle, ma anche dall’anima, dalla mente; insieme alla polvere e alle ragnatele alle pareti spazzar via la ragnatela dagli occhi e cominciare a vedere! […]
Restare significa indossare la camicia alla rovescia, sentire il tonfo dei piedi di Zachàr che salta giù dalla stufa, pranzare con Tarànt’ev, pensare il meno possibile, non finir di leggere il Viaggio in Africa, invecchiare pacificamente in casa della comare di Tarànt’ev…
«Ora o mai più! Essere o non essere!»

Le parole dette dall’amico, ‘ora o mai più’, aut aut, scatenano in Oblòmov quello che lui stesso definisce dilemma oblomoviano, un’evoluzione dell’antico dilemma che afflisse Amleto, ma più atroce, più soffocante; essere o non essere, vivere o morire, perde la sua tragicità se confrontato al dubbio esistenziale di vivere o non vivere, vivere o lasciarsi morire dentro.
La morte è temibile, il non vivere è terribile.

Ma da cosa deriva quest’incapacità alla vita? Cosa può spingere un uomo intelligente e sensibile a tramutarsi in un uomo inutile e spento?

Iljùša restava tristemente in casa, iperprotetto come un fiore esotico in serra, e come il fiore tenuto sotto vetro cresceva lentamente e stentatamente. Le energie che cercavano di manifestarsi si ripiegavano all’interno e sfiorivano, avvizzendo.

Il piccolo Il’jà Il’ič è un bambino attivo e vivace, e come tutti gli altri bambini vorrebbe scorrazzare libero per i campi, sporcarsi nel fango, rotolarsi sul prato, ma tutto ciò non è possibile per il giovane rampollo degli Oblòmov. Il’jà Il’ič nasce nella tenuta di Oblòmovka attorniato dalle cure della balia, della madre e dei numerosi servitori al loro servizio; la madre di Oblòmov è apprensiva, iperprotettiva, timorosa e allarmista: ogni slancio vitale del figlio viene severamente represso, mettendo a sua disposizione schiere di domestici pronti a soddisfare ogni sua più piccola esigenza. È dunque naturale che Oblòmov, crescendo, disprezzi il lavoro, in quanto fin da piccolo ha assistito ad un modello comportamentale degno di Oblòmovka: i genitori vivono nell’ozio, nell’indolenza, nell’inattività totale, perché a far tutto sono gli altri, i servi.
Oblòmov non comprende l’impegno nel lavoro perché i genitori l’hanno educato in questo modo: quando doveva recarsi dall’istitutore erano gli stessi genitori a trovare scuse per non farlo andare, sminuendo così l’importanza dei propri doveri e non instillando nel bambino il senso alla responsabilità.

Restò soprappensiero e macchinalmente cominciò a scarabocchiare sol dito sulla polvere, poi guardò quel che aveva scritto: Oblomovismo.

Come scrive giustamente Nikolàj Dobroljùbov nel suo saggio Che cos’è l’oblomovismo?(1859) “L’essenziale qui non è Oblòmov, ma l’oblomovismo.”: è la condizione di apatico immobilismo, di oziosa staticità che permea Oblòmovka e coloro che vi abitano; è lo stile di vita inteso come componente intrinseca, come modo di interpretare se stessi all’interno della realtà in cui viviamo.
La colpa, se di colpa vogliamo parlare, non è di Oblòmov, ma dell’educazione ricevuta nell’infanzia, che a sua volta dipende dall’oblomovismo, una condizione innaturalmente naturale.

L’incapacità di Oblòmov di andare avanti deriva quindi da Oblòmovka, dall’oblomovismo: tutto è iniziato a Oblòmovka e tutto deve finire lì; Oblòmov non riesce ad andare oltre il mito di Oblòmovka, è rimasto con la mente alla vita spensierata della sua infanzia e sempre lì essa torna e si trastulla. Se la vita dell’uomo tende in linea retta, quella di Oblòmov si attorciglia su se stessa, percorrendo al contrario un cerchio.
Il sogno di Oblòmov è un’utopia bucolica, inquinata dal modello parentale vissuto.
Così durante le lunghe ore passate sul divano, Oblòmov fantastica continuamente sulla sua vita futura nella tenuta di famiglia, con una dovizia di dettagli minuziosa e articolata.
Tra sogno e realtà, Oblòmov ha degli sprazzi di lucidità in cui si rende conto di aver sprecato la sua intera esistenza in virtù di un ideale incerto, ma al quale si aggrappa disperatamente, perché non gli resta altro.

Sognatore, emulatore, Oblòmov è anche un esistenzialista.

“La mia vita è cominciata spegnendosi” dice Oblòmov, ed è la verità.

Sono tutti cadaveri, uomini addormentati, peggio di me, questi frequentatori del mondo e della società! […]
Ecco, non stanno sdraiati, ma corrono ogni giorno avanti e indietro come mosche, e a che pro? […]
Un vano, quotidiano rimescolamento dei giorni!

Tutto è vano. A che pro lavorare, fare, agire, vivere, se poi moriamo? Un’incessante lotta alla quale Oblòmov si arrende; l’assurdità dell’esistenza, la sua precarietà: l’esistenzialismo.

L’uomo superfluo

Quello di Gončaròv non è semplicemente il ritratto di un singolo individuo sconfitto, ma un ritratto sociale di quell’aristocrazia ottocentesca fatalmente corrotta dai suoi stessi privilegi.
“L’uomo superfluo” è una figura tipica della letteratura russa; il “tipo umano” descritto da Gončaròv lo ritroviamo nei personaggi di Puškin, Lérmontov, Gògol’, Turgénev:

« Sì, sono un caffettano floscio, decrepito, frusto, e non per il clima, non per le fatiche, ma perché per dodici anni in me è stata rinchiusa una luce che cercava una via d’uscita, ma bruciava soltanto la sua prigione, non ha saputo liberarsi e si è spenta. E così, mio caro Andréj, sono passati dodici anni: non ho più avuto voglia di svegliarmi.» (Oblòmov)

La consapevolezza che sarebbe potuto uscire qualcosa di grande, ma così non è stato, non esce niente.
Qual è dunque la novità in questo romanzo, quale la sua grandezza? L’oblomovismo.
Il merito di Gončaròv è quello di aver dato un nome al sintomo che caratterizza tutti questi personaggi russi, ma che allo stesso tempo conserva un carattere universale, al di là dello spazio e del tempo, col quale è difficile non immedesimarsi.

Conclusioni

La figura di Oblòmov è complessa, così come complessi e contrastanti sono i sentimenti che scaturiscono nel lettore: da una parte, il disprezzo, quasi il fastidio, per un uomo che, nonostante non difetti d’intelligenza, si riduce a vegetale, privo di qualsivoglia interesse o stimolo, trova appigli vani per procrastinare, rimandare qualsiasi cosa; dall’altra, la pietà, nel constatare l’effettiva incapacità di Oblòmov, volente o nolente, a prendere parte attiva alla vita, e l’affetto, nel verificare la bontà, la semplicità e la dolcezza del protagonista.
È un personaggio tragicomico, a tratti esilarante, come quando bisticcia con Zachàr (altro personaggio sul quale mi sarei voluta soffermare, ma che vi risparmio), a tratti infinitamente commovente.
Ho pianto lacrime amare alla fine del libro (cosa per me assai difficile).

Detto questo, non è un romanzo banale, semplice, per tutti: bisogna avere la pazienza di sorbirsi la prima parte, estremamente prolissa, a tratti noiosa, e soprattutto bisogna avere quell’accortezza, quella sensibilità necessaria per apprezzare un protagonista ed un romanzo fuori dal comune.

Voto: ★★★★★

"Un letterato grasso, dal viso apatico e dagli occhi pensosi, come assonnati."  Così si descrive Gončaròv, in una fugace apparizione del romanzo.
“Un letterato grasso, dal viso apatico e dagli occhi pensosi, come assonnati.”
Così si descrive Gončaròv, in una fugace apparizione nel romanzo.

 

 

 

 

I classici della domenica: Le notti bianche

Le notti bianche ( il cui titolo si riferisce al chiarore crepuscolare che in Russia e in altri paesi, nelle latitudini inferiori al circolo polare, sussiste fino a tarda sera in alcuni periodi dell’anno ) è un romanzo breve, o un lungo racconto, che dir si voglia, scritto nel 1848 da un giovane Fëdor Dostoevskij che si interroga sulla dicotomia tra il reale e l’immaginario.

notti2

Ma perché fantastichiamo?
Forse perché la fantasia spesso è meglio della realtà.
E perché la fantasia è meglio della realtà?
Beh, perché la fantasia si può controllare, la realtà no.
Ma poi, perché abbiamo bisogno del controllo?
Perché, perché…perché siamo esseri umani.

Il sogno

La fantasia è il regno del possibile, della speranza e dei desideri.
La realtà è la realtà. Nella vita reale non possiamo avere il pieno controllo della nostra esistenza. Nella realtà regna l’ignoto, la paura, il dolore. E noi, in quanto esseri umani, non siamo certo impassibili di fronte a tutto ciò.
E’ per questo che il Sognatore, protagonista del breve romanzo di Dostoevskij, non può fare a meno di fantasticare.
Il Sognatore, il cui nome ci è ignoto, passa la sua vita nella solitudine totale; incapace di instaurare rapporti reali, egli passa la sua vita vagando per le strade di Pietroburgo, creando legami immaginari con i palazzi, con i passanti, con tutti ma con nessuno.

La vita del Sognatore è una vita di sensazioni; vive di attimi, di emozioni fatue e improvvise, qualsiasi cosa stuzzica la sua fantasia che scatena moti di gioia o d’inquietudine.
Il Sognatore ha vissuto mille vite ma allo stesso tempo neanche una.
Il Sognatore si crogiola nei suoi sogni, nelle sue fantasticherie, ride e piange, vive in un altro mondo e se ne compiace: lui può avere “tutto”, gli altri possono solo accontentarsi della realtà. Ma poi qualcosa cambia.
Anche la fantasia può impoverirsi, diventare arida e banale. Manca l’eccitazione, manca l’emozione, manca l’essenza del concreto. E allora, in cosa si traduce questa vita fatta di niente? In niente, appunto. In un’intera esistenza sprecata in un mondo lontano, incorporeo, inconcludente.

Il Sognatore non è un uomo, è un essere evanescente.

La realtà

Una notte, però, la prima notte, il protagonista si imbatte in una ragazza che piange, Nasten’ka. La compassione e l’affinità che scaturisce alla vista della giovane è subitanea, ma egli è troppo timido per avvicinarsi. La ragazza, accortasi di lui, si allontana, ma poco dopo viene importunata da un uomo. E’ l’occasione del Sognatore per avvicinarsi a Nasten’ka, dopo essere intervenuto contro il vecchio molestatore. Da questo spiacevole avvenimento nasce una bella amicizia tra i due, amicizia che presto si trasformerà in qualcosa di più per il triste Sognatore.

Cosa avviene difatti a questo punto? Il Sognatore decide di uscire dalla sua nicchia immaginaria, dal suo angolino fittizio, di provare a rientrare nel mondo degli esseri umani, e di vivere, almeno per una volta in vita sua, nella realtà.
Così i due si incontreranno durante le quattro notti successive, svelandosi e rivelando a vicenda i propri tormenti.

Nel raccontarsi, il Sognatore vive una dolorosa presa di coscienza nel comprendere appieno la vacuità e lo sperpero della sua esistenza, ma è altresì grato per aver incontrato Nasten’ka, è esaltato dalla nuova esperienza del contatto umano, si sente finalmente realizzato, uomo tra gli uomini.
Ma questa riconoscenza, questa amicizia, questo affetto, diventa, senza che l’uomo se ne accorga, amore. Amore al principio taciuto e sofferto in silenzio, ma col passare dei giorni l’esigenza di rivelare questo sentimento diventa sempre più forte, finché l’ultima notte, la quarta, il Sognatore non resiste, deve esprimere a Nasten’ka ciò che prova.
Nasten’ka però ama un altro uomo. Lo aspetta da un anno ma lui ancora non si fa vivo. Che fare? Nasten’ka ama il Sognatore, in un certo senso; è buono, è gentile, prova un sincero amore per lei. E allora, presa dallo sconforto per l’abbandono dell’altro, presa alla sprovvista dalla rivelazione dell’amico, Nasten’ka cede e si convince di amare il Sognatore. La gioia dell’uomo è inesprimibile. Iniziano progetti, iniziano altre fantasie. Poi, quell’uomo amato da Nasten’ka compare e il Sognatore è sconfitto. Le sue speranze sono infrante, la sua felicità perduta. E’ mattina.

Lo confesso, il senso di pena che ho provato è stato forte. La compassione che deriva dalla sua disillusione è quasi angosciante.

Conclusioni

Ma il punto di tutto il racconto qual è insomma? Vince la ricerca del piacere o la fuga dal dolore? E’ meglio rifugiarsi nei sogni, dove niente e nessuno può nuocerci, o mettersi in gioco nella dura realtà, anche a costo di rimanere feriti? E’ preferibile un dolce niente o una spietata tangibilità?
La risposta risiede nel proprio modo di vedere le cose e nelle esperienze personali che formano il nostro carattere e la conseguente presa di posizione verso la vita; comunque, stando a quanto afferma il Sognatore…

” Dio mio! Un intero attimo di beatitudine! Ed è forse poco seppure nell’intera vita di un uomo?…”

Io, dal canto mio, continuo a sognare ancora un po’.

Voto: ★★★★