La storia del mercoledì: I diari 1862-1910

Quando si nomina Tolstoj, subito si pensa a Guerra e pace, Anna Karenina, e agli altri romanzi scritti dall’autore russo, oppure alla sua dottrina, il tolstoianesimo (o tolstoismo che dir si voglia), ma quanti si soffermano a pensare alla vita famigliare dello scrittore russo?
Sòf’ja Andrèevna Tolstàja è stata la moglie di Lev Nikolàevič Tolstòj per ben quarantotto anni, dal 1862 fino al 1910 (anno della morte del marito), e durante questi anni ha tenuto un diario che, fortunatamente, è giunto sino a noi.
I diari di Sof’ja Tolstaja sono la preziosissima testimonianza di una donna sensibile e intelligente che ha convissuto per lungo tempo con uno degli scrittori più importanti e geniali del XIX secolo.

All’ombra di Tolstoj: una vita (in)felice

Sòf’ja Andrèevna Bers, detta anche Sonja, si fidanza giovanissima con l’ormai trentacinquenne Tolstoj; ancora ingenua e sognatrice, Sof’ja accetta il matrimonio con Tolstoj ancora prima di aver terminato di leggere la proposta di lui, scritta in una lettera. Dopo un fidanzamento lampo, durato poco più di una settimana, i due si sposano il 23 settembre 1862, a cui seguì una separazione dalla famiglia molto dolorosa per Sof’ja.
Molti fatti avvenuti durante il periodo del fidanzamento, e la cerimonia del matrimonio stesso, sono stati poi descritti da Tolstoj in Anna Karenina, in riferimento al matrimonio di Kitty e Levin: i messaggi scritti per iniziali da Levin e decifrati alla perfezione da Kitty, l’offerta dei propri diari alla futura sposa, i dubbi sull’amore di lei, il ritardo di Levin al matrimonio per la mancanza di una camicia pulita, tutte queste scene narrate nel romanzo sono in realtà episodi concretamente vissuti da Lev e Sof’ja.

Giunti a Jàsnaja Poljana, ha inizio per Sof’ja una tormentosa permanenza nella tranquillità campestre della residenza del marito; giovane donna, ancora diciottenne, abituata alla vita ben più movimentata e allegra della sua famiglia a Mosca, Sof’ja si ritrova improvvisamente isolata in un ambiente silenzioso e solitario. A turbarla ulteriormente è la lettura dei diari di Tolstoj, in cui viene a conoscenza delle precedenti relazioni amorose (e sessuali) del marito.
Avete presente la frase di Oscar Wilde: “ Gli uomini vorrebbero essere sempre il primo amore di una donna. Questa è la loro sciocca vanità. Le donne hanno un istinto più sottile per le cose: a loro piace essere l’ultimo amore di un uomo. ” ? Ebbene, tutto ciò non si può certo dire per Sof’ja che, dilaniata dalla gelosia, si tormenterà per molti anni a causa delle precedenti esperienze amatorie di Tolstoj.
Come un uccellino in gabbia, i primi anni matrimoniali di Sof’ja sono caratterizzati dalla noia e dalla solitudine, dal desiderio di attività e movimento, e soprattutto dal grande amore per Tolstoj; la vita della giovane sposa ruota interamente attorno al marito, Sof’ja vive letteralmente per lui. È quindi comprensibile che, se privata di una vita sociale e dominata unicamente dal desiderio di amore per Tolstoj, Sof’ja ceda spesso alla drammaticità di fronte alla sua stessa gelosia e al marito che è molto preso dal suo lavoro. E nonostante capisca quanto sia autodistruttivo questo amore per Tolstoj, Sof’ja non potrà mai fare a meno di lui.

Dopo un anno arriva il primo dei tredici figli, Sergèj, seguito dalla sorellina Tat’jana. I figli danno un nuovo scopo alla vita di Sof’ja che dovrà occuparsi della loro educazione, oltre alla gestione della casa. Contemporaneamente al ruolo di madre, Sof’ja svolge anche le vesti di copista, riscrivendo le bozze dei romanzi e degli articoli di Tolstoj.
La stesura di Guerra e pace è probabilmente il periodo più felice della vita matrimoniale di Sof’ja: appassionata al romanzo, Sof’ja prova un senso d’orgoglio nel poter copiare i manoscritti del marito e nell’essere presa in considerazione per quanto riguarda i suoi consigli.

Con l’avvento degli anni ’70 iniziano le crisi esistenziali di Tolstoj, come emergono palesemente in Anna Karenina, scritto in quegli anni. Questa crisi si acuisce sempre di più e, con il progressivo distacco dalla chiesa ortodossa, il desiderio di tornare a una vita più semplice, contadina, rinnegando il lusso e il benessere dei soldi che non manca di donare a chi ha più bisogno di lui, si innesca tra i due coniugi un insanabile disaccordo, una triste incomprensione che li accompagnerà sempre di lì in poi.
A fomentare questo distacco tra i due c’è poi Vladimir Čertkòv, il fondatore del tolstoismo.

Al già esistente disaccordo famigliare si va ad aggiungere La sonata a Kreutzer del 1889; in questo romanzo breve Tolstoj condanna severamente l’amore carnale e il matrimonio; immaginate, quindi, quanto potesse far piacere a Sof’ja trascrivere un romanzo che praticamente rinnegava tutta la sua esistenza. E nonostante questo, è grazie a Sof’ja se La sonata a Kreutzer venne pubblicata, intercedendo per il marito direttamente allo zar.

A segnare una nuova crepa nel cuore di Sof’ja è la morte del piccolo Vanička, ultimo figlio dei Tolstoj, il bambino su cui Sof’ja aveva riversato tutto il suo amore. Questo evento drammatico segnerà per sempre la vita della donna, i cui nervi cominciano sempre di più a cedere, e il pensiero del suicidio sarà sempre più frequente.
L’unico conforto di Sof’ja è il compositore Sergej Ivanovič Taneev, che con la sua musica e la sua amicizia, fa nascere nella donna un forte amore per la musica (e un amore platonico per lui), mentre in Tolstoj regna la gelosia.

Con l’avvento del nuovo secolo, Sof’ja si sente ulteriormente ferita quando viene a scoprire che il marito ha vergato un nuovo testamento in cui lascia i diritti d’autore di tutte le sue opere al pubblico dominio, privando così la famiglia di una qualsiasi eredità, ed affidandone la cura a Čertkòv, al quale già erano stati affidati i diari di Tolstoj.
Sof’ja è preda sempre più spesso di attacchi isterici e tenta continuamente falsi suicidi.

Nella notte tra il 27 e il 28 ottobre 1910 Tolstoj decide definitivamente di andarsene da casa. Il motivo dell’estrema decisione sarebbe stata Sof’ja che, mentre il marito era coricato, sarebbe andata a frugare tra le sue carte. Sof’ja ovviamente nega nel suo diario:

Pretesto della sua fuga è stato il fatto che io di notte ho rovistato nelle sue carte. Ma io, nonostante sia entrata per un minuto nel suo studio, non ho toccato neanche una carta e sul tavolo non c’era nessuna carta.

Molto differente è la versione di Tolstoj.

Alla scoperta della fuga del marito, Sof’ja si getta nello stagno, dal quale viene tirata fuori dalla figlia Saša e dal segretario di Tolstoj, Bulgakov.
Sfortunatamente, durante la fuga Tolstoj si ammala e deve terminare il suo viaggio alla stazione di Astapovo. Non appena Sof’ja scopre dove si trova il marito lo raggiunge con un treno speciale, ma non le sarà permesso di avvicinarsi a lui se non quando sarà ormai spirato.

Chi è Sof’ja Tolstaja?

È difficile decifrare la personalità di una persona vissuta secoli prima, ma è altresì interessante cercare di ricostruire tutti gli eventi e le emozioni che hanno caratterizzato un’esistenza.
Chi era Sof’ja Tolstaja?
C’è chi l’ha definita una moderna Santippe, chi l’accusa, chi la crede pazza; altri sono stati più benevoli, come Simone de Beauvoir o Doris Lessing (di cui figura una prefazione proprio in questi diari della Tolstaja) che la difendono in virtù della sua condizione di donna in un’epoca maschilista.
Io, attraverso la lettura dei suoi diari, non ritengo che Sof’ja fosse pazza, ma che fosse affetta da nevrosi, se non isteria, da una gelosia patologica, ossessiva, che la rendeva insicura e paranoica. È indubbio però che la posizione del marito, un eminente scrittore e pensatore, non abbia facilitato le cose per Sof’ja; l’attenzione per il proprio lavoro e successivamente le idee di rinuncia alla vita benestante con il ritorno ad una vita contadina, hanno gravato sicuramente sulle spalle di Sof’ja. Pensate a tutto il lavoro di trascrizione che ha compiuto, riscrivendo decine di volte la stessa copia, e poi vedere il marito che dona tutte le sue opere al popolo, privando così la sua stessa famiglia di tale eredità. C’è chi l’ha definita avara per questo, ma io ritengo legittimo voler conservare per sé e per la famiglia i frutti del proprio lavoro. E non mi risulta che fosse egoista: Sof’ja curava come poteva i poveri che non potevano permettersi le spese mediche. Certo, lei non era esaltata come il marito: il fanatico ascetismo di Tolstoj (che tra l’altro predicava la castità quando lui invece continuava ad avere rapporti con la moglie) era ovviamente inattuabile con una famiglia già fatta ed educata ad altri standard.
Chi l’accusa, poi, sono prevalentemente i seguaci di Tolstoj, i tenebrosi, come li chiamava Sof’ja, che ovviamente non possono che attaccare colei che si opponeva alle estremizzazioni del loro maestro.
No, quello che ho percepito io è che Sof’ja è stata una donna sensibile e che ha sofferto, non importa di chi sia effettivamente la colpa, una donna che ha riempito tutta la sua vita dell’amore per Tolstoj.

Conclusioni

Questo è stato il mio primo vero approccio con la lettura di un diario. Devo ammettere che, finché non sono arrivata alla metà, ho riscontrato qualche difficoltà con la lettura in quanto un diario non è certo un romanzo (monsieur de la Palisse), e ovviamente non è propriamente scorrevole, non essendo finalizzato allo scopo di intrattenere o interessare il lettore, ma man mano che andavo avanti ho cominciato ad incuriosirmi sempre di più e ad immedesimarmi con questa donna che è stata al fianco di uno dei più grandi scrittori russi per ben mezzo secolo. Non solo, ha risvegliato in me una morbosa curiosità nei confronti di Tolstoj ( a tal proposito, se conoscete qualche biografia critica su Tolstoj vi sarei grata se me ne rendeste nota). È per questo che i diari di Sof’ja sono tanto importanti; attraverso i suoi scritti possiamo vedere l’altra faccia della medaglia, “riumanizzare” Tolstoj, non vendendolo più solo come un grande genio, ma anche come un uomo e, come tale, con tutti i suoi vizi e difetti.

Voto: ★★★★

Giovedì: libero_ (Dis)Avventure librarie

Circa tre settimane fa sono andata in libreria; finalmente era arrivato il libro che avevo ordinato, uno di quelli con Poirot.
Osservo attentamente lo scaffale zeppo di titoli, poi lo vedo: eccolo! È mio! Lo afferro, non lo sfoglio neanche, il semplice fatto di averlo tra le mani basta a riempirmi di gioia. Raggiungo la cassa, aspetto il mio turno pazientemente, pago, torno a casa. È sabato.
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Giallo martedì: Uno studio in rosso

Nel primo romanzo di sir Arthur Conan Doyle che vede come protagonista il signor Sherlock Holmes, Uno studio in rosso, pubblicato nel 1887, assistiamo alla conoscenza tra il famoso detective e colui che diventerà il suo fedele assistente, il dottor Watson.
In cerca di un appartamento a buon prezzo, Watson verrà messo in contatto con Holmes che, a sua volta, cerca qualcuno con cui coabitare per dividere l’affitto del celeberrimo appartamento di Baker Street. Ha così inizio quella felice convivenza che renderà celebre il duo.

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Uno studio in rosso è appunto l’inizio dell’avventura “sherlockiana”, il cui campo d’indagine si svolge tra due continenti, quello europeo e quello americano; il ritrovamento inspiegabile del corpo senza vita in una casa abbandonata a Londra cova, infatti, le sue origini nel paese oltreoceano, ma non dico altro e tanto vi basti.

Chi vive al 221b di Baker Street?

Sherlock Holmes è lo stereotipo dell’investigatore per eccellenza: con la sua lente d’ingrandimento, le sue intuizioni fuori dal comune e la sua maniacale analisi delle impronte, questo personaggio appare al contempo brillante e farsesco. Magro e slanciato, ha un fisico che sa di alacrità, e difatti è un detective dell’azione, anche se talvolta viene colto da uno stato apatico, come afferma Watson:

“La sua energia sembrava inesauribile, quando lo coglieva un accesso di attività; ma, di tanto in tanto, si verificava in lui come una reazione. Allora, per giorni e giorni, se ne stava sul divano del salotto, pronunciando a malapena qualche monosillabo e senza contrarre un solo muscolo del viso, dal mattino alla sera.”

Quest’oscillazione tra due stati emotivi così diversi, mi fa pensare che Sherlock Holmes sia affetto da disturbo bipolare non meglio identificato.
Esperto conoscitore delle scienze e della cronaca nera, Sherlock Holmes è il gentiluomo
tardo Ottocentesco, un Lord Byron razionalizzato, che mette le sue abilità intellettive al servizio della giustizia, e che, durante le pause dai crimini e dai misteri, non disdegna impugnare l’archetto e suonare il suo violino.

Il dottor Watson è la voce narrante del romanzo; probabile alterego dell’autore stesso, Watson è un medico che, di ritorno dalla guerra in Afghanistan, si ritrova a vivere senza uno scopo ben preciso in una caotica Londra. L’incontro con Holmes cambierà la vita del dottore.
A differenza di un altro co-protagonista per eccellenza nella storia della crime novel (il capitano Hastings di Poirot), Watson non è esattamente il braccio destro un po’ stupido di Holmes; anziché stupido, il dottor Watson è più che altro una spalla, un cagnolino che non smette di scodinzolare dinanzi alle capacità di Sherlock Holmes. Troppo cattiva? Eppure è questa l’impressione scaturita dalla lettura: l’ammirazione di Watson per Holmes va oltre il semplice stupore iniziale, Watson è propriamente estasiato dall’acume del suo compagno d’avventura.

Uno studio in rosso: un prototipo maldestro della deduzione

Il merito di Arthur Conan Doyle dovrebbe consistere nell’essere uno dei capostipiti del giallo deduttivo, ovvero il giallo classico, in cui un investigatore (solitamente privato) riesce a scoprire l’identità dell’assassino basandosi su indizi fuorvianti e di non semplice risoluzione, attorniato da una cerchia ben ristretta e definita di sospettati.
In questo primo romanzo, però, mancano le basi per definire Uno studio in rosso un buon giallo; innanzitutto la verosimiglianza: durante la perlustrazione del luogo del delitto, Holmes riesce a identificare il tipo di sigaro fumato, semplicemente osservandone la cenere rimasta… Accidenti!
Meglio di un’analisi di laboratorio!
Poi, l’assassino, di cui non si sa niente fino alla fine, mostra prova di poca intelligenza o, ancora meglio, di una propizia presunzione, presentandosi a casa di Sherlock Holmes, quando doveva per forza sapere che lì risiedeva chi investigava su di lui ( e non scendo nei particolari per non rovinare la lettura a nessuno). In pratica, se non era per l’infingarda sicurezza del tizio in questione, Holmes avrebbe dovuto faticare non poco per riuscire a rintracciarlo.

Qui, insomma, non si rispettano le norme che costituiscono il cosiddetto decalogo di Knox; tale decalogo si basa sulle dieci regole che un buon romanzo giallo dovrebbe osservare.
Riporto la lista così come elencata su Wikipedia:

  • Il colpevole dev’essere un personaggio che compare nella storia fin dalle prime pagine; il lettore non deve poter seguire nel corso della storia i pensieri del colpevole.
  • Tutti gli interventi soprannaturali o paranormali sono esclusi dalla storia.
  • Al massimo è consentita solo una stanza segreta o un passaggio segreto.
  • Non possono essere impiegati veleni sconosciuti; inoltre non può essere impiegato uno strumento per il quale occorra una lunga spiegazione scientifica alla fine della storia.
  • Non ci dev’essere nessun personaggio cinese nella storia.
  • Nessun evento casuale dev’essere di aiuto all’investigatore e neppure lui può avere un’inspiegabile intuizione che alla fine si dimostra esatta.
  • L’investigatore non può essere il colpevole.
  • L’investigatore non può scoprire alcun indizio che non sia istantaneamente presentato anche al lettore.
  • L’amico stupido dell’investigatore, il suo “dottor Watson”, non deve nascondere alcun pensiero che gli passa per la testa: la sua intelligenza dev’essere impalpabile, al di sotto di quella del lettore medio.
  • Non ci devono essere né fratelli gemelli né sosia, a meno che non siano stati presentati correttamente fin dall’inizio della storia.

Sebbene queste regole possano essere reinterpretare, anche per permettere di ampliare la fantasia e il campo d’azione dello scrittore, penso tuttavia che alcune di queste indicazioni siano obbligatorie: la prima parte della regola n.1 per esempio, la n.2, la n. 6 e la n.8. Queste mi sembrano, per ovvie ragioni, imprescindibili per la buona riuscita di un giallo come si deve; ma in questo romanzo le regole n.1 e n.8 vanno a farsi benedire: le conclusioni a cui arriva Holmes sono del tutto inaccessibili ed estranee al lettore, in quanto non viene edotto su tutti i dati… Per forza, poi, riesce a risolvere l’indagine solo Sherlock!
Poi, che c’entra, essendo il decalogo risalente al 1929, possiamo anche perdonare a sir Doyle le sue mancanze.

Conclusioni

Sebbene i sopracitati strafalcioni, Uno studio in rosso è una lettura piacevole e senza troppe pretese. A mio modesto parere non è certamente un capolavoro, ma ogni tanto è benefico distendersi con una lettura non troppo impegnativa, senza per questo risultare stupida o di scarso valore letterario; qui il valore c’è eccome, ma, senza sminuire l’importanza di Sherlock Holmes, per me il migliore resta senza dubbio monsieur Poirot.
Quindi non te la prendere e à bientôt Sherlock Holmes.

Voto: ★★★