I brividi del venerdì: L’inquilino del terzo piano

Nel 1962, il trio composto da Roland Topor, i registi Fernando Arrabal e Alejandro Jodorowsky, diede vita al cosiddetto “Movimento panico”, una sorta di controcorrente (o sottocorrente) del surrealismo classico, atta a stravolgere l’assurdo con l’assurdo, nelle sue venature più strampalate e dark, e direi che L’inquilino del terzo piano rispecchia pienamente lo spirito del collettivo.

Grottesco, onirico, kafkiano, il romanzo dell’allora ventiseienne Roland Topor è un viaggio all’interno dell’assurdo; scritto nel 1964, racconta la vicenda surreale e orrifica del povero Trelkovsky, protagonista del libro.

L’inquilino stregato

Trelkovsky, uomo mite e apprensivo, trova alloggio nell’appartamento precedentemente appartenuto a Simonetta Choule, morta suicida gettandosi dalla finestra di quella stessa abitazione. Sotto le pressanti insistenze degli amici per inaugurare l’appartamento, organizza una festicciola che finisce per disturbare i vicini. Ripreso dal padrone di casa, Trelkovsky inizia a sviluppare un’ansia maniacale nel timore di provocare anche il più piccolo rumore; succube del silenzio imposto dai vicini, Trelkovsky comincia a interrogarsi sulla vita dell’ex-inquilina. Chi era Simonetta Choule? E perché si è suicidata senza apparente motivo?
Col passare del tempo le stranezze attorno alla donna e al condominio in cui abitava si manifestano sempre più chiaramente; senza accorgersene Trelkovsky ha cominciato a trasformarsi: il suo quotidiano caffè viene sostituito dalla cioccolata di Simonetta, le sigarette da lui fumate sono quelle della Choule, finché un giorno si risveglia truccato da donna e con un molare in meno, proprio come la donna suicida che ha vissuto nel suo appartamento.
Per Trelkovsky diventa chiara la trappola in cui è finito dentro: una macchinazione incomprensibile quanto inarrestabile ad opera dei vicini per tramutarlo a tutti i costi in Simonetta Choule. Il panico e l’angoscia di Trelkovsky crescono impotenti di fronte al complotto ordito contro di lui, contro la sua stessa identità: i vicini sono dei sadici mostri, il cui unico scopo è quello di spingere, per l’ennesima volta, Simonetta Choule dalla finestra.

L’eterno ritorno di Simonetta Choule

Il filo essenziale dell’intera vicenda si compone delle due scene dell’ospedale che, come in una manifestazione nietzschiana dell’eterno ritorno, aprono e chiudono la storia: Trelkovsky che si reca all’ospedale per visitare la moribonda Simonetta, fasciata di bende, irriconoscibile se non per l’assenza del molare; la fine di Trelkovsky, ricoverato in quello stesso ospedale, con le stesse bende, con lo stesso dente mancante e con un altro Trelkovsky lì in visita. Una prospettiva diversa che rievoca la stessa situazione, in un eterno rifluire di eventi che provoca nel lettore un indelebile sconcerto.

Molteplici le interpretazioni possibili: Tralkovsky è semplicemente paranoico; Trelkovsky comincia ad avere allucinazioni a causa delle vessazioni dei vicini; Trelkovsky non è mai esistito realmente, è un sogno, una creazione della stessa Simone, o una fantasia basata sull’uomo che va a visitarla in ospedale (di conseguenza, l’intera linea narrativa sarebbe fittizia, esclusa la breve scena introduttiva).
Infine l’ultima, la più probabile nella sua inquietante semplicità: Trelkovsky è ciò che ci viene narrato. La particolarità che rende grandioso, nel suo genere, questo romanzo va oltre le sue caratteristiche paradossali, oltre le sue plurime decodificazioni, bensì risiede nell’accettazione della realtà dei fatti, così com’è, per quanto illogica e grottesca, come uno spettro della stessa realtà reso tangibile nel suo opposto, l’assurdo.

Durante la lettura del romanzo viene da chiedersi se non si tratti tutto di un enorme, macabro scherzo; perché questo insensato accanimento su Trelkovsky? Cos’ha fatto per meritarsi tale trattamento? Non ha fatto niente, se non esistere. Basta la sua sola esistenza per provocare l’odio nei vicini, i quali sono altro che una rappresentazione di quest’assurdo di cui l’esistenza si compone.

Conclusioni

Lo stile narrativo è preciso ed essenziale; la cadenza regolare di una situazione iniziale normale e perfettamente possibile, si evolve, man mano che si prosegue nella lettura, in un ritmo serrato, sempre più frenetico e vorticoso, in un crescendo di visioni mostruose, chimeriche, per arrivare ad un finale straordinario e destabilizzante, vero punto di forza del romanzo.
Le accezioni negative e sinistre, che rasentano il grandguignol, sono atti deliberati di Topor, volti a scioccare e inorridire chi legge, nonché a disorientarlo. Attraverso il disgusto e il nonsense, arrivare all’estasi e alla bellezza: questo il processo creativo che vi è dietro.

Il mio voto è relativamente basso dato l’elemento rappresentativo dell’opera; si legge sicuramente bene in una mezza giornata, grazie allo stile scorrevole, alla trama insolita e alla lunghezza del testo, e il valore letterario è indubbiamente all’altezza del movimento culturale che interpreta.
Tuttavia si tratta pur sempre di un romanzo atipico, e il surrealismo rientra poco nelle mie corde, per quanto, ripeto, questo sia un libro spettacolare per la sua natura ed il suo genere.

Voto: ★★★½

Da questo libro è stato tratto l'omonimo film diretto e interpretato da Roman Polanski nel 1976.
Da questo libro è stato tratto l’omonimo film diretto e interpretato da Roman Polanski nel 1976.

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